1) Lei è direttore del FIERI, il Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’Immigrazione. Può spiegarmi meglio di cosa si occupa il suo istituto?
Fieri è nato nel 2002, è un istituto di ricerca privato, indipendente, senza scopo di lucro.
Si occupa di immigrazioni in tutti i loro aspetti, quindi dalle cause delle immigrazioni interne ed internazionali, alle conseguenze sul piano sociale, politico ed economico. Il FIERI si occupa inoltre delle politiche migratorie, ovvero delle risposte di policy e delle reazioni politiche ai fenomeni migratori. Il FIERI è un piccolo istituto specializzato su questi temi che vive essenzialmente di progetti di ricerca internazionali e in parte di contributi alle ricerche da parte di fondazioni italiane e straniere.
2) E' stato lei a creare il FIERI? Cosa l’ha spinta ad interessarsi di immigrazione?
Fieri è stato fondato dalla politologa Giovanna Zincone nel 2002, dopo aver avuto un’esperienza accademica e politica nell’ambito dell’immigrazione (aveva infatti presieduto una commissione internazionale per le politiche di immigrazione che fu creata in Italia alla fine degli anni '90/ inizio anni 2000). Io dirigo il centro dal 2009.
Cosa mi ha spinto ad occuparmi di immigrazione? Molti anni fa stavo facendo una laurea in giurisprudenza ed ero un po' insoddisfatto dell'approccio piuttosto formalistico e distante dall'attualità. Vedevo che uno dei grandi cambiamenti nella mia città (Torino), nelle strade, era quello dell'apparire in forma massiccia dell'immigrazione. Ero affascinato ed incuriosito da questa novità e decisi di occuparmene. Feci anche il servizio civile del comune di Torino presso un centro di accoglienza per immigrati e quella fu poi l'occasione di incontro con questa realtà, questo fenomeno che è molto ricco, complesso, affascinante e anche decisivo per il nostro futuro ed è per questo che ho deciso di occuparmene. Con varie fasi, sia in ambito accademico che, ormai da anni, in ambito di ricerca non accademica, mi occupo di questo tema.
3) Ultimamente molti parlano di adattare la tecnologia blockchain alla questione migranti, in modo da facilitare sia questi nella ricerca di aiuti economici e nel richiedere asilo, che gli stati ospitanti nel registrare, in modo sistematico e senza il rischio di commettere errori, i dati personali dei richiedenti asilo e dei migranti. Lei cosa ne pensa?
L'applicazione principale della tecnologia blockchain è quella per validare i bitcoin, la moneta economica virtuale. Senz'altro questa tecnologia può essere usata con finalità analoghe e applicata ai bisogni di persone migranti. I migranti possono, per esempio, al momento di partire, convertire una quantità di denaro dalla valuta del loro paese d'origine in bitcoin, così da avere una sorta di capitale molto trasferibile, che possono poi riconvertire eventualmente una volta giunti nel paese B o C, senza il rischio di smarrimento durante il viaggio. Ci sono tante altre tecnologie in ambito finanziario che consentono di fare questo.
Quello che a noi era sembrato interessante era invece un uso della tecnologia blockchain non tanto per certificare un valore economico ma piuttosto per certificare un valore professionale, un capitale umano. Uno dei grossi problemi nel campo dell'integrazione lavorativa delle persone migranti è la trasferibilità del capitale umano, ovvero come faccio a mostrare nel paese B le competenze acquisite nel paese A?
All'interno dell'Unione Europea o in altri insiemi di stati simili, ci sono accordi di mutuo riconoscimento dei diplomi ecc., che possono essere più o meno funzionanti, più o meno sofisticati ed avanzati (l'Unione Europea è uno degli ambiti in cui questo mutuo riconoscimento è più elevato).
Questo non avviene tra paesi diversi e ci sono tante ragioni per cui questo non avviene: la diversità dei sistemi educativi e della qualità degli stessi, i problemi di attendibilità, di frodi o di falsificazioni di diplomi.
Inoltre, soprattutto, c’è il problema di come riconoscere e valorizzare delle competenze informali, ovvero non competenze acquisite all'interno di un'istituzione formativa riconosciuta ma conoscenze acquisite facendo (learning by doing). Si tratta sia di competenze informali, ovvero competenze professionali acquisite attraverso un percorso non tradizionale, che di competenze non formali, cioè competenze diverse da quelle strettamente professionali, che però possono essere decisive ai fini di rendere un lavoratore o una lavoratrice attraente per un determinato mercato del lavoro (es. skills relazionali, la capacità di lavorare bene in un ambiente eterogeneo, di lavorare bene sotto stress ecc.). Come dimostrare ad un datore di lavoro nel paese B che nel paese A sono state acquisite competenze informali o non formali molto importanti in qualsiasi ambito? Chiaramente il problema si pone di più per lavoratori poco qualificati dal punto di vista formale, in quanto coloro che sono molto qualificati da un punto di vista formale spesso sono anche dotati di skills di tipo non formale o informale.
Il problema in Europa si pone spesso per i rifugiati o i richiedenti asilo che sono arrivati dal Medio Oriente o dall'Africa, che sono in buona misura persone con bassi livelli di istruzione formale ma con delle skills di livello informale che sono spesso l'unico appiglio per cercare di favorire un'integrazione lavorativa.
Come fare a certificare queste skills informali? Ci sono diversi modi.
Si possono fare test pratici, ma questo è impegnativo, richiede tempo (time consuming);
si può fare un’autocertificazione (questionari in cui si chiede di indicare quali siano le competenze ed è la persona stessa a rispondere), ma un self-assessment non è di solito sufficiente per i datori di lavoro per prendere una decisione di assunzione;
infine, si può chiedere a chi ha conosciuto direttamente le competenze di quella persona di testimoniare.
Ma come si può essere sicuri che quella testimonianza sia autentica e provenga realmente da un datore di lavoro per cui il soggetto ha lavorato? Le tecnologie blockchain possono aiutare perché permettono di collegare una testimonianza (che sta in un cloud, in rete) ad una fonte specifica. Ci possono quindi dare la garanzia che quella testimonianza sia autentica. L'aspetto interessante di queste tecnologie è che queste sono immutabili: i dati inseriti al loro interno non possono essere modificati.
4) Cercando informazioni sulla politica dell’immigrazione francese, ho potuto notare che spesso i censimenti effettuati a livello nazionale dall’INSEE e da altri enti di statistica non tengono in considerazione numerosi fattori (non si tengono in considerazione i cosiddetti “stranieri irregolari” né coloro che hanno una “doppia cittadinanza”, ovvero quella del paese d’origine e quella francese, i quali vengono spesso conteggiati due volte; spesso si conteggiano tra i “nuovi arrivi” anche coloro che, pur vivendo da anni sul territorio francese, sono passati da una situazione di irregolarità a una di regolarità, acquisendo ad esempio la cittadinanza). Questo fa sì che, quindi, i risultati forniti da questi censimenti e riportati dai media e dai politici siano spesso errati (e, in qualche modo, “esagerati”). La stessa situazione è riscontrabile anche in Italia o negli altri paesi europei? Questo fenomeno contribuisce in qualche modo ad aumentare forme di odio o paura nei confronti degli stranieri?
I dati amministrativi, per il fatto di provenire da un'autorità pubblica, dovrebbero essere attendibili. Il dato amministrativo sui residenti, ovvero coloro che sono iscritti all'anagrafe, è un dato amministrativo abbastanza attendibile in sé. Il problema non è tanto di attendibilità del dato, quanto piuttosto un problema di assenza di rilevazione sistematica delle uscite.
Il dato amministrativo sui soggiornanti, coloro che hanno il permesso di soggiorno rilasciato dalle questure, o sui residenti, che sono le due forme principali di registrazione degli stranieri nella maggior parte dei paesi europei, è un dato amministrativo imperfetto perché non c’è una registrazione altrettanto precisa e sistematica delle uscite. Anche quando qualcuno esce per sempre dal paese, dovrebbe segnalarlo all’anagrafe (cancellazione in uscita) ma spesso la maggior parte delle persone, perché non sono a conoscenza di doverlo fare o per negligenza, non segnala l'uscita. Può anche essere che l'uscita non venga segnalata per ragioni precise, ad esempio tanti ragazzi italiani che emigrano in Germania o nel Regno Unito decidono di tenersi la residenza in Italia, invece di iscriversi all'AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all'Estero) perché vogliono continuare ad usare determinati servizi in Italia, come quello relativo al medico di base.
C’è probabilmente una sovrastima della presenza dovuta a questo fattore e una sottostima strutturale data dal fatto che vi siano degli immigrati irregolari.
Non è però il dato aritmetico che crea l’inquietudine, l’ostilità e questo si vede da tante cose. Le percentuali di immigrati che i cittadini europei ritengono presenti nel loro paese sono molto più alte di quelle reali. La media degli italiani ritiene che ci sia un 20-25% di immigrati stranieri, mentre questi sono meno del 10%. C'è un problema di correzione delle percezioni che non dipende da finezze di tipo amministrativo, ma è uno scarto molto più profondo. Spesso gli atteggiamenti più preoccupati, più ostili verso l'immigrazione non si trovano nelle zone a più alta densità di immigrati, ma in quelle a più bassa densità di immigrati. Questo può dipendere dal fatto che ci sia ignoranza e quindi diffidenza oppure ci può essere un effetto dovuto al ritmo del cambiamento. Per esempio, in Bosnia, dopo la chiusura delle frontiere dei Balcani, c’è una concentrazione di richiedenti asilo, persone in fuga che non riescono più ad entrare in Croazia e questo fenomeno si è generato nell'arco di così poco tempo, che anche se questi individui non sono tantissimi, il ritmo di crescita del fenomeno e la sua visibilità genera anxiety, preoccupazione anche se i numeri assoluti non sono importanti.
E' giusto cercare di fare il possibile per avere dei numeri ufficiali accurati, che rispettino la realtà, ma purtroppo questo non è sufficiente. Viviamo in un'epoca che viene definita post-factual, post-truth, dove ci troviamo quotidianamente di fronte a fake news, le quali penetrano più velocemente delle notizie vere perché confermano una credenza, rafforzano un’identità e sono quindi più gratificanti di una notizia che costringe l'individuo a fare i conti con se stesso, a mettere in discussione degli assunti, dei principi che ritiene scontati e fondamentali. Non basta la verità fattuale per contrastare delle tendenze che hanno anche radici non strettamente razionali.
5) Come fare a risolvere questo sentimento di anxiety oggi presente in Italia?
Questa è una domanda su cui si sta arrovellando mezza classe politica europea, mezzo mondo della ricerca. E' una domanda estremamente complessa a cui non c'è una risposta facile.
Certamente bisogna cercare di correggere gli errori fattuali, gli errori di percezione qualitativa o quantitativa, che spesso vengono strumentalizzati da persone dotate di potere o influenza, che hanno convenienza a far propagare questi errori. Ci sono intellettuali e uomini politici che continuano, ad esempio, a dire erroneamente che tutti i terroristi di matrice islamica siano immigrati, perché conviene loro. È difficile combattere le fake news e le menzogne che spesso vengono usate in questo campo, perché nello stesso tempo c’è chi continua a diffonderle. Questa può essere una prima strategia, quella di smantellamento delle false verità o dei miti.
Ci può essere anche una strategia morale, per cercare di resuscitare o tenere viva l’empatia, ad esempio facendo conoscere, anche con strumenti non scientifici, ma artistici o giornalistici, la realtà della sofferenza dei migranti.
Ci sono delle strategie di tipo politico, quelle più efficaci, consistenti nel dare voce a chi di solito voce non ne ha e diventa come simbolo. Di solito si parla di immigrati usando due figure: da un lato la povera vittima e dall'altro la terribile minaccia, come se in mezzo non ci fosse niente. Queste due figure esistono ma la stragrande maggioranza dei migranti sta tra questi due estremi e contribuisce alla vita del paese in cui si trova, sia come lavoro, che come tasse, che come energia, creatività ecc. Dare vita a persone che incarnano qualcosa di diverso da questa rappresentazione violenta e simplificatrice è un modo per disinnescare la retorica che si ha dei migranti. Se in televisione si vedesse anche l'effettiva grande massa dei migranti che studiano, lavorano ecc. o immagini dei pochi immigrati che sono dei talenti speciali e che quindi portano al paese in cui si trovano qualcosa in più che altrimenti non ci sarebbe, si potrebbe trasmettere un messaggio impossibile o molto difficile da negare, come invece si può fare nel caso delle statistiche.
Spesso i migranti suscitano odio perché mettono in crisi una retorica xenofoba alla radice. Laddove ci si trovi davanti un esempio di migrante diverso dalla semplificazione alla quale siamo abituati, si può trasmettere un messaggio diverso da quello solitamente trasmesso.
Questo può essere un fattore molto importante ma difficile da realizzare. In Francia questo accade già di più rispetto all'Italia, dove ci sono anche strategie deliberate di dare visibilità, per esempio anche attraverso l'accesso a posti di governo (es. ministri provenienti da minoranze di origine immigrata in modo da provare a contrastare una percezione sbagliata, che vede tutti i migranti come vittime o minacce).
6) In ambito d'immigrazione, si parla sempre più spesso della necessità di cooperare in questo senso a livello internazionale. Cosa pensa del fatto che il Presidente del Consiglio Conte abbia deciso di non prendere parte al Global Compact sull'Immigrazione di Marrakech, tenutosi il 10 e l'11 dicembre 2018?
Conte ha preso una decisione miope nel non andare al Global Compact for Immigration di Marrakech. La scelta è stata dettata dal voler fare la voce grossa contro tutti quelli che cercano di gestire l’immigrazione in modo ragionevole, anche mistificando la realtà del Global Compact, che in quanto tale non è vincolante, ma è solo una specie di "carta delle intenzioni" per provare ad aprire la strada per una cooperazione tra i governi d'origine e i governi dei paesi prevalentemente di destinazione.
E' una strategia in cui ci si costruisce un "nemico di paglia", raccontando che il Global Compact è una strategia dei globalisti per far invadere l'Europa, come è successo in vari paesi europei, tra cui Francia e Belgio, quando in realtà il Global Compact non è affatto una strategia minacciosa contro l’Europa, ma una semplice "carta delle intenzioni".
Piegarsi a questa mistificazione e non andare è miope e soprattutto lo è per un paese come l’Italia, che non è protetto dalla Manica o dall'Atlantico, ma che è immerso in mezzo al Mediterraneo e può anche cercare di trasformarsi in "fortezza", ma questo è molto difficile. E l’Italia ha tutta la convenienza a cercare soluzioni negoziate con i paesi del Nord Africa e dell'Africa sub-sahariana e non soluzioni di forza, perché rischia di essere molto esposta a qualsiasi forma di instabilità che si possa produrre sulla riva sud del Mediterraneo. Proprio l'Italia dovrebbe avere un interesse particolare a lavorare con ragionevolezza, senza illusione, per approcci più collaborativi, più cooperativi e quindi credo che per l'Italia sia stato particolarmente miope rifiutarsi di rimanere seduti a quel tavolo. Cosa che tra l'altro non comportava nessun obbligo, ma forse qualche piccola opportunità. Siamo praticamente gli unici dell'Europa meridionale a non aver partecipato. Gli altri sono paesi dell'est Europa o Stati Uniti e Australia, che sono lontani dai possibili focolai di tensione e che possono fare più facilmente gli "isolazionisti", in quanto effettivamente abbastanza distanti o isolati dalle possibili fonti di preoccupazione. L'Italia invece è molto vicina ed è quindi poco ragionevole rifiutarsi di dialogare. E' ovvio che dialogare non vuol dire obbligo di piegarsi a decisioni altrui, ma vuol dire comunque tenere aperto un canale di comunicazione.
Fieri è nato nel 2002, è un istituto di ricerca privato, indipendente, senza scopo di lucro.
Si occupa di immigrazioni in tutti i loro aspetti, quindi dalle cause delle immigrazioni interne ed internazionali, alle conseguenze sul piano sociale, politico ed economico. Il FIERI si occupa inoltre delle politiche migratorie, ovvero delle risposte di policy e delle reazioni politiche ai fenomeni migratori. Il FIERI è un piccolo istituto specializzato su questi temi che vive essenzialmente di progetti di ricerca internazionali e in parte di contributi alle ricerche da parte di fondazioni italiane e straniere.
2) E' stato lei a creare il FIERI? Cosa l’ha spinta ad interessarsi di immigrazione?
Fieri è stato fondato dalla politologa Giovanna Zincone nel 2002, dopo aver avuto un’esperienza accademica e politica nell’ambito dell’immigrazione (aveva infatti presieduto una commissione internazionale per le politiche di immigrazione che fu creata in Italia alla fine degli anni '90/ inizio anni 2000). Io dirigo il centro dal 2009.
Cosa mi ha spinto ad occuparmi di immigrazione? Molti anni fa stavo facendo una laurea in giurisprudenza ed ero un po' insoddisfatto dell'approccio piuttosto formalistico e distante dall'attualità. Vedevo che uno dei grandi cambiamenti nella mia città (Torino), nelle strade, era quello dell'apparire in forma massiccia dell'immigrazione. Ero affascinato ed incuriosito da questa novità e decisi di occuparmene. Feci anche il servizio civile del comune di Torino presso un centro di accoglienza per immigrati e quella fu poi l'occasione di incontro con questa realtà, questo fenomeno che è molto ricco, complesso, affascinante e anche decisivo per il nostro futuro ed è per questo che ho deciso di occuparmene. Con varie fasi, sia in ambito accademico che, ormai da anni, in ambito di ricerca non accademica, mi occupo di questo tema.
3) Ultimamente molti parlano di adattare la tecnologia blockchain alla questione migranti, in modo da facilitare sia questi nella ricerca di aiuti economici e nel richiedere asilo, che gli stati ospitanti nel registrare, in modo sistematico e senza il rischio di commettere errori, i dati personali dei richiedenti asilo e dei migranti. Lei cosa ne pensa?
L'applicazione principale della tecnologia blockchain è quella per validare i bitcoin, la moneta economica virtuale. Senz'altro questa tecnologia può essere usata con finalità analoghe e applicata ai bisogni di persone migranti. I migranti possono, per esempio, al momento di partire, convertire una quantità di denaro dalla valuta del loro paese d'origine in bitcoin, così da avere una sorta di capitale molto trasferibile, che possono poi riconvertire eventualmente una volta giunti nel paese B o C, senza il rischio di smarrimento durante il viaggio. Ci sono tante altre tecnologie in ambito finanziario che consentono di fare questo.
Quello che a noi era sembrato interessante era invece un uso della tecnologia blockchain non tanto per certificare un valore economico ma piuttosto per certificare un valore professionale, un capitale umano. Uno dei grossi problemi nel campo dell'integrazione lavorativa delle persone migranti è la trasferibilità del capitale umano, ovvero come faccio a mostrare nel paese B le competenze acquisite nel paese A?
All'interno dell'Unione Europea o in altri insiemi di stati simili, ci sono accordi di mutuo riconoscimento dei diplomi ecc., che possono essere più o meno funzionanti, più o meno sofisticati ed avanzati (l'Unione Europea è uno degli ambiti in cui questo mutuo riconoscimento è più elevato).
Questo non avviene tra paesi diversi e ci sono tante ragioni per cui questo non avviene: la diversità dei sistemi educativi e della qualità degli stessi, i problemi di attendibilità, di frodi o di falsificazioni di diplomi.
Inoltre, soprattutto, c’è il problema di come riconoscere e valorizzare delle competenze informali, ovvero non competenze acquisite all'interno di un'istituzione formativa riconosciuta ma conoscenze acquisite facendo (learning by doing). Si tratta sia di competenze informali, ovvero competenze professionali acquisite attraverso un percorso non tradizionale, che di competenze non formali, cioè competenze diverse da quelle strettamente professionali, che però possono essere decisive ai fini di rendere un lavoratore o una lavoratrice attraente per un determinato mercato del lavoro (es. skills relazionali, la capacità di lavorare bene in un ambiente eterogeneo, di lavorare bene sotto stress ecc.). Come dimostrare ad un datore di lavoro nel paese B che nel paese A sono state acquisite competenze informali o non formali molto importanti in qualsiasi ambito? Chiaramente il problema si pone di più per lavoratori poco qualificati dal punto di vista formale, in quanto coloro che sono molto qualificati da un punto di vista formale spesso sono anche dotati di skills di tipo non formale o informale.
Il problema in Europa si pone spesso per i rifugiati o i richiedenti asilo che sono arrivati dal Medio Oriente o dall'Africa, che sono in buona misura persone con bassi livelli di istruzione formale ma con delle skills di livello informale che sono spesso l'unico appiglio per cercare di favorire un'integrazione lavorativa.
Come fare a certificare queste skills informali? Ci sono diversi modi.
Si possono fare test pratici, ma questo è impegnativo, richiede tempo (time consuming);
si può fare un’autocertificazione (questionari in cui si chiede di indicare quali siano le competenze ed è la persona stessa a rispondere), ma un self-assessment non è di solito sufficiente per i datori di lavoro per prendere una decisione di assunzione;
infine, si può chiedere a chi ha conosciuto direttamente le competenze di quella persona di testimoniare.
Ma come si può essere sicuri che quella testimonianza sia autentica e provenga realmente da un datore di lavoro per cui il soggetto ha lavorato? Le tecnologie blockchain possono aiutare perché permettono di collegare una testimonianza (che sta in un cloud, in rete) ad una fonte specifica. Ci possono quindi dare la garanzia che quella testimonianza sia autentica. L'aspetto interessante di queste tecnologie è che queste sono immutabili: i dati inseriti al loro interno non possono essere modificati.
4) Cercando informazioni sulla politica dell’immigrazione francese, ho potuto notare che spesso i censimenti effettuati a livello nazionale dall’INSEE e da altri enti di statistica non tengono in considerazione numerosi fattori (non si tengono in considerazione i cosiddetti “stranieri irregolari” né coloro che hanno una “doppia cittadinanza”, ovvero quella del paese d’origine e quella francese, i quali vengono spesso conteggiati due volte; spesso si conteggiano tra i “nuovi arrivi” anche coloro che, pur vivendo da anni sul territorio francese, sono passati da una situazione di irregolarità a una di regolarità, acquisendo ad esempio la cittadinanza). Questo fa sì che, quindi, i risultati forniti da questi censimenti e riportati dai media e dai politici siano spesso errati (e, in qualche modo, “esagerati”). La stessa situazione è riscontrabile anche in Italia o negli altri paesi europei? Questo fenomeno contribuisce in qualche modo ad aumentare forme di odio o paura nei confronti degli stranieri?
I dati amministrativi, per il fatto di provenire da un'autorità pubblica, dovrebbero essere attendibili. Il dato amministrativo sui residenti, ovvero coloro che sono iscritti all'anagrafe, è un dato amministrativo abbastanza attendibile in sé. Il problema non è tanto di attendibilità del dato, quanto piuttosto un problema di assenza di rilevazione sistematica delle uscite.
Il dato amministrativo sui soggiornanti, coloro che hanno il permesso di soggiorno rilasciato dalle questure, o sui residenti, che sono le due forme principali di registrazione degli stranieri nella maggior parte dei paesi europei, è un dato amministrativo imperfetto perché non c’è una registrazione altrettanto precisa e sistematica delle uscite. Anche quando qualcuno esce per sempre dal paese, dovrebbe segnalarlo all’anagrafe (cancellazione in uscita) ma spesso la maggior parte delle persone, perché non sono a conoscenza di doverlo fare o per negligenza, non segnala l'uscita. Può anche essere che l'uscita non venga segnalata per ragioni precise, ad esempio tanti ragazzi italiani che emigrano in Germania o nel Regno Unito decidono di tenersi la residenza in Italia, invece di iscriversi all'AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all'Estero) perché vogliono continuare ad usare determinati servizi in Italia, come quello relativo al medico di base.
C’è probabilmente una sovrastima della presenza dovuta a questo fattore e una sottostima strutturale data dal fatto che vi siano degli immigrati irregolari.
Non è però il dato aritmetico che crea l’inquietudine, l’ostilità e questo si vede da tante cose. Le percentuali di immigrati che i cittadini europei ritengono presenti nel loro paese sono molto più alte di quelle reali. La media degli italiani ritiene che ci sia un 20-25% di immigrati stranieri, mentre questi sono meno del 10%. C'è un problema di correzione delle percezioni che non dipende da finezze di tipo amministrativo, ma è uno scarto molto più profondo. Spesso gli atteggiamenti più preoccupati, più ostili verso l'immigrazione non si trovano nelle zone a più alta densità di immigrati, ma in quelle a più bassa densità di immigrati. Questo può dipendere dal fatto che ci sia ignoranza e quindi diffidenza oppure ci può essere un effetto dovuto al ritmo del cambiamento. Per esempio, in Bosnia, dopo la chiusura delle frontiere dei Balcani, c’è una concentrazione di richiedenti asilo, persone in fuga che non riescono più ad entrare in Croazia e questo fenomeno si è generato nell'arco di così poco tempo, che anche se questi individui non sono tantissimi, il ritmo di crescita del fenomeno e la sua visibilità genera anxiety, preoccupazione anche se i numeri assoluti non sono importanti.
E' giusto cercare di fare il possibile per avere dei numeri ufficiali accurati, che rispettino la realtà, ma purtroppo questo non è sufficiente. Viviamo in un'epoca che viene definita post-factual, post-truth, dove ci troviamo quotidianamente di fronte a fake news, le quali penetrano più velocemente delle notizie vere perché confermano una credenza, rafforzano un’identità e sono quindi più gratificanti di una notizia che costringe l'individuo a fare i conti con se stesso, a mettere in discussione degli assunti, dei principi che ritiene scontati e fondamentali. Non basta la verità fattuale per contrastare delle tendenze che hanno anche radici non strettamente razionali.
5) Come fare a risolvere questo sentimento di anxiety oggi presente in Italia?
Questa è una domanda su cui si sta arrovellando mezza classe politica europea, mezzo mondo della ricerca. E' una domanda estremamente complessa a cui non c'è una risposta facile.
Certamente bisogna cercare di correggere gli errori fattuali, gli errori di percezione qualitativa o quantitativa, che spesso vengono strumentalizzati da persone dotate di potere o influenza, che hanno convenienza a far propagare questi errori. Ci sono intellettuali e uomini politici che continuano, ad esempio, a dire erroneamente che tutti i terroristi di matrice islamica siano immigrati, perché conviene loro. È difficile combattere le fake news e le menzogne che spesso vengono usate in questo campo, perché nello stesso tempo c’è chi continua a diffonderle. Questa può essere una prima strategia, quella di smantellamento delle false verità o dei miti.
Ci può essere anche una strategia morale, per cercare di resuscitare o tenere viva l’empatia, ad esempio facendo conoscere, anche con strumenti non scientifici, ma artistici o giornalistici, la realtà della sofferenza dei migranti.
Ci sono delle strategie di tipo politico, quelle più efficaci, consistenti nel dare voce a chi di solito voce non ne ha e diventa come simbolo. Di solito si parla di immigrati usando due figure: da un lato la povera vittima e dall'altro la terribile minaccia, come se in mezzo non ci fosse niente. Queste due figure esistono ma la stragrande maggioranza dei migranti sta tra questi due estremi e contribuisce alla vita del paese in cui si trova, sia come lavoro, che come tasse, che come energia, creatività ecc. Dare vita a persone che incarnano qualcosa di diverso da questa rappresentazione violenta e simplificatrice è un modo per disinnescare la retorica che si ha dei migranti. Se in televisione si vedesse anche l'effettiva grande massa dei migranti che studiano, lavorano ecc. o immagini dei pochi immigrati che sono dei talenti speciali e che quindi portano al paese in cui si trovano qualcosa in più che altrimenti non ci sarebbe, si potrebbe trasmettere un messaggio impossibile o molto difficile da negare, come invece si può fare nel caso delle statistiche.
Spesso i migranti suscitano odio perché mettono in crisi una retorica xenofoba alla radice. Laddove ci si trovi davanti un esempio di migrante diverso dalla semplificazione alla quale siamo abituati, si può trasmettere un messaggio diverso da quello solitamente trasmesso.
Questo può essere un fattore molto importante ma difficile da realizzare. In Francia questo accade già di più rispetto all'Italia, dove ci sono anche strategie deliberate di dare visibilità, per esempio anche attraverso l'accesso a posti di governo (es. ministri provenienti da minoranze di origine immigrata in modo da provare a contrastare una percezione sbagliata, che vede tutti i migranti come vittime o minacce).
6) In ambito d'immigrazione, si parla sempre più spesso della necessità di cooperare in questo senso a livello internazionale. Cosa pensa del fatto che il Presidente del Consiglio Conte abbia deciso di non prendere parte al Global Compact sull'Immigrazione di Marrakech, tenutosi il 10 e l'11 dicembre 2018?
Conte ha preso una decisione miope nel non andare al Global Compact for Immigration di Marrakech. La scelta è stata dettata dal voler fare la voce grossa contro tutti quelli che cercano di gestire l’immigrazione in modo ragionevole, anche mistificando la realtà del Global Compact, che in quanto tale non è vincolante, ma è solo una specie di "carta delle intenzioni" per provare ad aprire la strada per una cooperazione tra i governi d'origine e i governi dei paesi prevalentemente di destinazione.
E' una strategia in cui ci si costruisce un "nemico di paglia", raccontando che il Global Compact è una strategia dei globalisti per far invadere l'Europa, come è successo in vari paesi europei, tra cui Francia e Belgio, quando in realtà il Global Compact non è affatto una strategia minacciosa contro l’Europa, ma una semplice "carta delle intenzioni".
Piegarsi a questa mistificazione e non andare è miope e soprattutto lo è per un paese come l’Italia, che non è protetto dalla Manica o dall'Atlantico, ma che è immerso in mezzo al Mediterraneo e può anche cercare di trasformarsi in "fortezza", ma questo è molto difficile. E l’Italia ha tutta la convenienza a cercare soluzioni negoziate con i paesi del Nord Africa e dell'Africa sub-sahariana e non soluzioni di forza, perché rischia di essere molto esposta a qualsiasi forma di instabilità che si possa produrre sulla riva sud del Mediterraneo. Proprio l'Italia dovrebbe avere un interesse particolare a lavorare con ragionevolezza, senza illusione, per approcci più collaborativi, più cooperativi e quindi credo che per l'Italia sia stato particolarmente miope rifiutarsi di rimanere seduti a quel tavolo. Cosa che tra l'altro non comportava nessun obbligo, ma forse qualche piccola opportunità. Siamo praticamente gli unici dell'Europa meridionale a non aver partecipato. Gli altri sono paesi dell'est Europa o Stati Uniti e Australia, che sono lontani dai possibili focolai di tensione e che possono fare più facilmente gli "isolazionisti", in quanto effettivamente abbastanza distanti o isolati dalle possibili fonti di preoccupazione. L'Italia invece è molto vicina ed è quindi poco ragionevole rifiutarsi di dialogare. E' ovvio che dialogare non vuol dire obbligo di piegarsi a decisioni altrui, ma vuol dire comunque tenere aperto un canale di comunicazione.
1) Vous êtes le directeur du FIERI, le Forum International et Européen de Recherche sur l'Immigration. Pouvez-vous m'expliquer ce que fait votre institution ?
Fondé en 2002, Fieri est un institut de recherche privé, indépendant et à but non lucratif.
Il traite de tous les aspects de l'immigration, des causes de l'immigration interne et internationale aux conséquences sociales, politiques et économiques. Le FIERI traite également des politiques migratoires, c'est-à-dire des réponses politiques et des réactions politiques aux phénomènes migratoires. Le FIERI est un petit institut spécialisé dans ces questions qui vit essentiellement de projets de recherche internationaux et en partie de contributions à la recherche de fondations italiennes et étrangères.
2) Avez-vous créé le FIERI ? Qu'est-ce qui vous a poussé à vous intéresser à
l'immigration ?
Le Fieri a été fondée par la politologue Giovanna Zincone en 2002, après avoir acquis une expérience académique et politique dans le domaine de l'immigration (elle avait en effet présidé une commission internationale pour les politiques d'immigration qui avait été créée en Italie à la fin des années 1990 et au début des années 2000). Je dirige le centre depuis 2009.
Qu'est-ce qui m'a poussé à travailler dans l'immigration ? Il y a de nombreuses années, je faisais des études de droit et j'étais un peu insatisfait de l'approche plutôt formaliste et éloigné de l'actualité. J'ai vu que l'un des grands changements dans les rues de ma ville (Turin) était l'apparition d'une immigration massive. J'étais fasciné et intrigué par cette nouveauté et j'ai décidé d'en prendre soin. J'ai aussi fait un service civique au sein de la ville de Turin dans un centre d'accueil pour immigrés et c'était alors l'occasion de constater cette réalité, ce phénomène très riche, complexe, fascinant et aussi décisif pour notre avenir et c'est pourquoi j'ai décidé d'y faire face. En plusieurs étapes, tant dans le domaine académique que depuis des années dans le domaine de la recherche non académique, je m'occupe de ce sujet.
3) Dernièrement, beaucoup parlent d'adapter la technologie de la chaîne de blocage à la question des migrants, afin de faciliter à ces derniers la recherche d'une aide économique et la demande d'asile, et de donner aux Etats d'accueil la possibilité d'enregistrer, de manière systématique et sans risque d'erreur, les données personnelles des demandeurs d'asile et migrants. Qu'est-ce que vous en pensez ?
L'application principale de la technologie de la chaîne de blocs est la validation des bitcoins, la monnaie économique virtuelle. Cette technologie peut certainement être utilisée à des fins similaires appliquées aux besoins des migrants. Les migrants peuvent, par exemple, au moment du départ, convertir une somme d'argent de la monnaie de leur pays d'origine en bitcoins afin de disposer d'une sorte de capital hautement transférable, qu'ils peuvent ensuite reconvertir une fois arrivés dans le pays B ou C, sans risque de perte pendant le voyage. Il existe de nombreuses autres technologies dans le domaine financier qui permettent de le faire.
Ce qui nous a paru intéressant, c'est plutôt l'utilisation de la technologie de la chaîne de blocs non pas tant pour certifier une valeur économique que pour certifier une valeur professionnelle, un capital humain. L'un des problèmes majeurs dans le domaine de l'intégration professionnelle des migrants est la transférabilité du capital humain, c'est-à-dire comment puis-je montrer dans le pays B les compétences acquises dans le pays A ?
Au sein de l'Union Européenne ou dans d'autres ensembles d'États similaires, il existe des accords de reconnaissance mutuelle des diplômes, etc. qui peuvent être plus ou moins fonctionnels, plus ou moins sophistiqués et avancés (l'Union Européenne est un des domaines dans lesquels cette reconnaissance mutuelle est la plus élevée).
Cela ne se produit pas entre tous les différents pays et il y a de nombreuses raisons pour lesquelles cela ne se produit pas : la diversité des systèmes éducatifs et leur qualité, les problèmes de fiabilité, la fraude ou la falsification des diplômes.
De plus, il y a aussi le problème de la reconnaissance et de la valorisation des compétences informelles, c'est-à-dire non pas des compétences acquises au sein d'un établissement de formation reconnu, mais des connaissances acquises par la pratique. Il s'agit à la fois de compétences informelles, c'est-à-dire de qualifications professionnelles acquises par un parcours non traditionnel, mais aussi de compétences non formelles, c'est-à-dire de qualifications différentes de celles strictement professionnelles, qui peuvent cependant être décisives pour rendre un travailleur attractif sur un marché du travail donné (par exemple les aptitudes relationnelles, la capacité à bien travailler dans un environnement hétérogène, à travailler bien sous stress, etc. Comment puis-je prouver à un employeur du pays B que des compétences informelles ou non formelles très importantes ont été acquises dans le pays A dans un domaine quelconque ? De toute évidence, le problème se pose davantage pour les travailleurs formellement peu qualifiés, car ceux qui sont formellement hautement qualifiés possèdent aussi souvent des compétences non formelles ou informelles.
Le problème en Europe se pose souvent pour les réfugiés ou les demandeurs d'asile arrivés du Moyen-Orient ou d'Afrique, qui sont dans une large mesure des personnes ayant un faible niveau d'éducation formelle mais des compétences informelles qui sont souvent le seul moyen de promouvoir l'intégration professionnelle.
Comment puis-je certifier ces compétences informelles ? Il y a différentes façons.
Des tests pratiques peuvent être effectués, mais c'est exigeant et prend beaucoup de temps ;
Une auto-certification peut être faite (questionnaires demandant d'indiquer quelles sont les compétences et la personne elle-même est celle qui répond), mais une autoévaluation n'est généralement pas suffisante pour que les employeurs puissent prendre une décision d'embauche ;
Enfin, on peut demander à ceux qui connaissent directement les compétences de cette personne de témoigner.
Mais comment peut-on être sûr que ce témoignage est authentique et qu'il provient réellement d'un employeur pour lequel le sujet a travaillé ? Les technologies Blockchain peuvent vous aider parce qu'elles vous permettent de lier un témoignage (qui se trouve dans un nuage, sur le réseau) à une source spécifique. Ils peuvent alors nous donner la garantie que ce témoignage est authentique. L'aspect intéressant de ces technologies est qu'elles sont immuables : les données qu'elles contiennent ne peuvent pas être modifiées.
4) En cherchant des informations sur la politique d'immigration française, j'ai constaté que les recensements nationaux effectués par l'Insee et d'autres organismes statistiques ne prennent souvent pas en compte de nombreux facteurs (les « étrangers en situation irrégulière » ne sont pas pris en compte, de même que ceux qui ont une « double nationalité », à savoir celle du pays d'origine et celle de la France, qui sont souvent comptés en double ; incluent souvent parmi les « nouveaux arrivants » aussi ceux qui, bien que vivant sur le territoire français depuis des années, sont passés d'une situation d'irrégularité à une situation de régularité, en acquérant par exemple la citoyenneté). Cela signifie que les résultats fournis par ces recensements et rapportés par les médias et les politiciens sont souvent erronés (et, d'une certaine manière, « exagérés »). La même situation se retrouve-t-elle en Italie ou dans d'autres pays européens ? Ce phénomène contribue-t-il d'une manière ou d'une autre à accroître les formes de haine ou de peur envers les étrangers ?
Les données administratives doivent être fiables car elles proviennent d'une autorité publique. Les données administratives sur les résidents, c'est-à-dire ceux qui sont inscrits à l'état civil, sont assez fiables en soi. Le problème n'est pas tant la fiabilité des données que l'absence de détection systématique des résultats.
Les données administratives sur ceux qui ont un permis de séjour délivré par la police, et sur les résidents, qui sont les deux principales formes d'enregistrement des étrangers dans la plupart des pays européens, sont imparfaites car il n'existe pas un enregistrement aussi précis et systématique des sorties. Même lorsqu'une personne quitte le pays pour toujours, elle doit le signaler au bureau de l'état civil (annulation à l'étranger), mais souvent, la plupart des gens, parce qu'ils ne sont pas conscients de devoir le faire ou par négligence, ne signalent pas la sortie. Il se peut aussi que la sortie ne soit pas signalée pour des raisons spécifiques, par exemple, de nombreux enfants italiens qui émigrent en Allemagne ou au Royaume-Uni décident de garder leur résidence en Italie, au lieu de s'inscrire à l'AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all'Estero) car ils veulent continuer à utiliser certains services en Italie, tels que celui du médecin traitant.
Il y a probablement une surestimation de la présence due à ce facteur et une sous-estimation structurelle due au fait qu'il y a des immigrants irréguliers.
Cependant, ce ne sont pas les statistiques qui créent l'anxiété et l'hostilité. Les pourcentages d'immigrants que les citoyens européens considèrent comme présents dans leur pays sont beaucoup plus élevés que les pourcentages réels. Le nombre moyen d'Italiens estime qu'il y a entre 20 et 25% d'immigrants étrangers, alors que ceux-ci sont moins de 10%. Il y a un problème de correction des perceptions qui ne dépend pas de la finesse administrative, mais qui est un écart beaucoup plus profond. Souvent, les attitudes les plus préoccupantes et les plus hostiles à l'égard de l'immigration ne se retrouvent pas dans les régions où la densité d'immigrants est la plus élevée, mais dans celles où la densité d'immigrants est la plus faible. Cela peut dépendre de l'ignorance et donc de la méfiance ou bien il peut y avoir un effet dû au rythme du changement, par exemple en Bosnie, après la fermeture des frontières des Balkans, il y a une concentration de demandeurs d'asile, de personnes fuyant qui ne peuvent plus entrer en Croatie et ce phénomène a été généré en si peu de temps, que même si ces individus ne sont pas si nombreux, le rythme de croissance du phénomène et sa visibilité suscite l'inquiétude, même si les chiffres absolus ne sont pas significatifs.
Il est juste d'essayer de faire tout ce qui est possible pour avoir des chiffres officiels précis qui respectent la réalité, mais malheureusement ce n'est pas suffisant. Nous vivons à une époque définie comme post-factuelle, post-vérité, où nous sommes confrontés quotidiennement à de fausses nouvelles, qui pénètrent plus vite que les vraies nouvelles parce qu'elles confirment une croyance, renforcent une identité et sont donc plus gratifiantes que les nouvelles qui forcent l'individu à se prendre en main, à remettre en question les hypothèses, principes qu'il juge évidents et fondamentaux. La vérité factuelle ne suffit pas à contrer les tendances qui n'ont pas non plus de racines strictement rationnelles.
5) Comment résoudre ce sentiment d'anxiété présent en Italie aujourd'hui ?
C'est une question sur laquelle la moitié de la classe politique européenne, et la moitié du monde de la recherche, cogite. C'est une question extrêmement complexe à laquelle il n'y a pas de réponse facile.
Nous devons certainement essayer de corriger les erreurs factuelles, les erreurs de perception qualitative ou quantitative, qui sont souvent exploitées par des personnes qui ont du pouvoir ou de l'influence et qui ont la possibilité de propager ces erreurs. Il y a des intellectuels et des politiciens qui continuent, par exemple, à dire à tort que tous les terroristes islamiques sont des immigrants, parce que cela leur convient. Il est difficile de lutter contre les fausses nouvelles et les mensonges qui sont souvent utilisés dans ce domaine, parce qu'en même temps il y a ceux qui continuent à les diffuser. Il peut s'agir d'une première stratégie, celle de démanteler les fausses vérités ou les mythes.
Il peut aussi y avoir une stratégie morale, pour tenter de ressusciter ou de maintenir l'empathie, par exemple en faisant connaître, même avec des instruments non scientifiques, mais artistiques ou journalistiques, la réalité de la souffrance des migrants.
Il existe des stratégies politiques, les plus efficaces, qui consistent à donner la parole à ceux qui ne l'ont généralement pas et qui deviennent des symboles. On parle d'immigrants en utilisant deux images : d'un côté la pauvre victime et de l'autre la terrible menace, comme s'il n'y avait rien entre les deux. Ces deux images existent mais la grande majorité des migrants se situe entre ces deux extrêmes et contribuent à la vie du pays dans lequel ils se trouvent, à la fois comme travail, comme impôts et comme énergie, créativité, etc. Donner vie à des personnes qui incarnent autre chose que cette représentation violente et simplificatrice est un moyen de désamorcer la rhétorique des migrants. Si vous pouviez également voir à la télévision la grande masse réelle de migrants qui étudient, travaillent, etc. ou des images des quelques immigrants qui sont des talents spéciaux et qui conduisent donc vers le pays où ils trouvent quelque chose de plus qu'il n'y en aurait autrement, vous pourriez transmettre un message impossible ou très difficile à nier, comme vous ne pouvez pas le faire dans le cas des statistiques.
Les migrants provoquent souvent la haine parce qu'ils questionnent une rhétorique xénophobe à sa racine. Lorsque nous sommes confrontés à un exemple de migrant autre que la simplification à laquelle nous sommes habitués, nous pouvons transmettre un message différent de celui habituellement transmis.
Cela peut être un facteur très important mais difficile à réaliser. En France, cela se produit déjà plus souvent qu'en Italie, où il existe aussi des stratégies délibérées pour donner de la visibilité, par exemple par l'accès à des postes gouvernementaux (par exemple, des ministres issus de minorités d'origine immigrée afin de tenter de contrer une perception erronée, qui considère tous les migrants comme des victimes ou des menaces).
6) Dans le domaine de l'immigration, on parle de plus en plus de la nécessité de coopérer à cet égard au niveau international. Que pensez-vous du fait que le Président du Conseil Giuseppe Conte a décidé de ne pas participer au Pacte mondial sur l'immigration de Marrakech, les 10 et 11 décembre 2018 ?
Monsieur Conte a pris la décision à courte vue de ne pas adhérer au Pacte mondial pour l'immigration à Marrakech. Le choix a été dicté par la volonté de faire entendre une voix forte contre tous ceux qui tentent de gérer l'immigration de manière raisonnable, mystifiant même la réalité du Pacte Mondial, qui en tant que tel n'est pas contraignant, mais n'est qu'une sorte de « charte des intentions » visant à ouvrir la voie à une coopération entre gouvernements d'origine et gouvernements des pays de destination.
C'est une stratégie dans laquelle nous construisons un « ennemi fictif », en disant que le Pacte mondial est une stratégie des mondialistes pour envahir l'Europe, comme cela s'est produit dans plusieurs pays européens, dont la France et la Belgique, alors qu'en fait le Pacte mondial n'est pas du tout une stratégie de menace contre l'Europe, mais une simple « charte des intentions ».
Se plier à cette mystification et ne pas y aller, c'est faire preuve de myopie et surtout de myopie pour un pays comme l'Italie, qui n'est pas protégé par la Manche ou l'Atlantique, mais qui est immergé au milieu de la Méditerranée et peut qui essaye de devenir une « forteresse », mais cela est très difficile. L'Italie a tout intérêt à chercher des solutions négociées avec les pays d'Afrique du Nord et d'Afrique subsaharienne et non des solutions de force, car elle risque d'être très exposée à toute forme d'instabilité qui pourrait se produire sur la rive sud de la Méditerranée. C'est précisément l'Italie qui devrait avoir un intérêt particulier à travailler de manière raisonnable, sans illusion, pour des approches plus collaboratives, plus coopératives, et je crois donc que pour l'Italie, c'était particulièrement myope de refuser de s'asseoir à cette table. Ce qui, soit dit en passant, n'impliquait aucune obligation, mais peut-être quelques petites opportunités. Nous sommes pratiquement les seuls habitants du sud de l'Europe à ne pas y avoir participé. Les autres sont des pays d'Europe de l'Est ou les Etats-Unis et l'Australie, qui sont loin des éventuelles flambées de tension et qui peuvent plus facilement rendre les « isolationnistes », car ils sont en fait assez éloignés ou isolés des sources possibles de préoccupation. L'Italie, en revanche, est très proche et il n'est donc pas raisonnable de refuser d'engager le dialogue. Il est évident que le dialogue ne signifie pas l'obligation de s'incliner devant les décisions des autres, mais qu'il signifie maintenir un canal de communication ouvert.
Fondé en 2002, Fieri est un institut de recherche privé, indépendant et à but non lucratif.
Il traite de tous les aspects de l'immigration, des causes de l'immigration interne et internationale aux conséquences sociales, politiques et économiques. Le FIERI traite également des politiques migratoires, c'est-à-dire des réponses politiques et des réactions politiques aux phénomènes migratoires. Le FIERI est un petit institut spécialisé dans ces questions qui vit essentiellement de projets de recherche internationaux et en partie de contributions à la recherche de fondations italiennes et étrangères.
2) Avez-vous créé le FIERI ? Qu'est-ce qui vous a poussé à vous intéresser à
l'immigration ?
Le Fieri a été fondée par la politologue Giovanna Zincone en 2002, après avoir acquis une expérience académique et politique dans le domaine de l'immigration (elle avait en effet présidé une commission internationale pour les politiques d'immigration qui avait été créée en Italie à la fin des années 1990 et au début des années 2000). Je dirige le centre depuis 2009.
Qu'est-ce qui m'a poussé à travailler dans l'immigration ? Il y a de nombreuses années, je faisais des études de droit et j'étais un peu insatisfait de l'approche plutôt formaliste et éloigné de l'actualité. J'ai vu que l'un des grands changements dans les rues de ma ville (Turin) était l'apparition d'une immigration massive. J'étais fasciné et intrigué par cette nouveauté et j'ai décidé d'en prendre soin. J'ai aussi fait un service civique au sein de la ville de Turin dans un centre d'accueil pour immigrés et c'était alors l'occasion de constater cette réalité, ce phénomène très riche, complexe, fascinant et aussi décisif pour notre avenir et c'est pourquoi j'ai décidé d'y faire face. En plusieurs étapes, tant dans le domaine académique que depuis des années dans le domaine de la recherche non académique, je m'occupe de ce sujet.
3) Dernièrement, beaucoup parlent d'adapter la technologie de la chaîne de blocage à la question des migrants, afin de faciliter à ces derniers la recherche d'une aide économique et la demande d'asile, et de donner aux Etats d'accueil la possibilité d'enregistrer, de manière systématique et sans risque d'erreur, les données personnelles des demandeurs d'asile et migrants. Qu'est-ce que vous en pensez ?
L'application principale de la technologie de la chaîne de blocs est la validation des bitcoins, la monnaie économique virtuelle. Cette technologie peut certainement être utilisée à des fins similaires appliquées aux besoins des migrants. Les migrants peuvent, par exemple, au moment du départ, convertir une somme d'argent de la monnaie de leur pays d'origine en bitcoins afin de disposer d'une sorte de capital hautement transférable, qu'ils peuvent ensuite reconvertir une fois arrivés dans le pays B ou C, sans risque de perte pendant le voyage. Il existe de nombreuses autres technologies dans le domaine financier qui permettent de le faire.
Ce qui nous a paru intéressant, c'est plutôt l'utilisation de la technologie de la chaîne de blocs non pas tant pour certifier une valeur économique que pour certifier une valeur professionnelle, un capital humain. L'un des problèmes majeurs dans le domaine de l'intégration professionnelle des migrants est la transférabilité du capital humain, c'est-à-dire comment puis-je montrer dans le pays B les compétences acquises dans le pays A ?
Au sein de l'Union Européenne ou dans d'autres ensembles d'États similaires, il existe des accords de reconnaissance mutuelle des diplômes, etc. qui peuvent être plus ou moins fonctionnels, plus ou moins sophistiqués et avancés (l'Union Européenne est un des domaines dans lesquels cette reconnaissance mutuelle est la plus élevée).
Cela ne se produit pas entre tous les différents pays et il y a de nombreuses raisons pour lesquelles cela ne se produit pas : la diversité des systèmes éducatifs et leur qualité, les problèmes de fiabilité, la fraude ou la falsification des diplômes.
De plus, il y a aussi le problème de la reconnaissance et de la valorisation des compétences informelles, c'est-à-dire non pas des compétences acquises au sein d'un établissement de formation reconnu, mais des connaissances acquises par la pratique. Il s'agit à la fois de compétences informelles, c'est-à-dire de qualifications professionnelles acquises par un parcours non traditionnel, mais aussi de compétences non formelles, c'est-à-dire de qualifications différentes de celles strictement professionnelles, qui peuvent cependant être décisives pour rendre un travailleur attractif sur un marché du travail donné (par exemple les aptitudes relationnelles, la capacité à bien travailler dans un environnement hétérogène, à travailler bien sous stress, etc. Comment puis-je prouver à un employeur du pays B que des compétences informelles ou non formelles très importantes ont été acquises dans le pays A dans un domaine quelconque ? De toute évidence, le problème se pose davantage pour les travailleurs formellement peu qualifiés, car ceux qui sont formellement hautement qualifiés possèdent aussi souvent des compétences non formelles ou informelles.
Le problème en Europe se pose souvent pour les réfugiés ou les demandeurs d'asile arrivés du Moyen-Orient ou d'Afrique, qui sont dans une large mesure des personnes ayant un faible niveau d'éducation formelle mais des compétences informelles qui sont souvent le seul moyen de promouvoir l'intégration professionnelle.
Comment puis-je certifier ces compétences informelles ? Il y a différentes façons.
Des tests pratiques peuvent être effectués, mais c'est exigeant et prend beaucoup de temps ;
Une auto-certification peut être faite (questionnaires demandant d'indiquer quelles sont les compétences et la personne elle-même est celle qui répond), mais une autoévaluation n'est généralement pas suffisante pour que les employeurs puissent prendre une décision d'embauche ;
Enfin, on peut demander à ceux qui connaissent directement les compétences de cette personne de témoigner.
Mais comment peut-on être sûr que ce témoignage est authentique et qu'il provient réellement d'un employeur pour lequel le sujet a travaillé ? Les technologies Blockchain peuvent vous aider parce qu'elles vous permettent de lier un témoignage (qui se trouve dans un nuage, sur le réseau) à une source spécifique. Ils peuvent alors nous donner la garantie que ce témoignage est authentique. L'aspect intéressant de ces technologies est qu'elles sont immuables : les données qu'elles contiennent ne peuvent pas être modifiées.
4) En cherchant des informations sur la politique d'immigration française, j'ai constaté que les recensements nationaux effectués par l'Insee et d'autres organismes statistiques ne prennent souvent pas en compte de nombreux facteurs (les « étrangers en situation irrégulière » ne sont pas pris en compte, de même que ceux qui ont une « double nationalité », à savoir celle du pays d'origine et celle de la France, qui sont souvent comptés en double ; incluent souvent parmi les « nouveaux arrivants » aussi ceux qui, bien que vivant sur le territoire français depuis des années, sont passés d'une situation d'irrégularité à une situation de régularité, en acquérant par exemple la citoyenneté). Cela signifie que les résultats fournis par ces recensements et rapportés par les médias et les politiciens sont souvent erronés (et, d'une certaine manière, « exagérés »). La même situation se retrouve-t-elle en Italie ou dans d'autres pays européens ? Ce phénomène contribue-t-il d'une manière ou d'une autre à accroître les formes de haine ou de peur envers les étrangers ?
Les données administratives doivent être fiables car elles proviennent d'une autorité publique. Les données administratives sur les résidents, c'est-à-dire ceux qui sont inscrits à l'état civil, sont assez fiables en soi. Le problème n'est pas tant la fiabilité des données que l'absence de détection systématique des résultats.
Les données administratives sur ceux qui ont un permis de séjour délivré par la police, et sur les résidents, qui sont les deux principales formes d'enregistrement des étrangers dans la plupart des pays européens, sont imparfaites car il n'existe pas un enregistrement aussi précis et systématique des sorties. Même lorsqu'une personne quitte le pays pour toujours, elle doit le signaler au bureau de l'état civil (annulation à l'étranger), mais souvent, la plupart des gens, parce qu'ils ne sont pas conscients de devoir le faire ou par négligence, ne signalent pas la sortie. Il se peut aussi que la sortie ne soit pas signalée pour des raisons spécifiques, par exemple, de nombreux enfants italiens qui émigrent en Allemagne ou au Royaume-Uni décident de garder leur résidence en Italie, au lieu de s'inscrire à l'AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all'Estero) car ils veulent continuer à utiliser certains services en Italie, tels que celui du médecin traitant.
Il y a probablement une surestimation de la présence due à ce facteur et une sous-estimation structurelle due au fait qu'il y a des immigrants irréguliers.
Cependant, ce ne sont pas les statistiques qui créent l'anxiété et l'hostilité. Les pourcentages d'immigrants que les citoyens européens considèrent comme présents dans leur pays sont beaucoup plus élevés que les pourcentages réels. Le nombre moyen d'Italiens estime qu'il y a entre 20 et 25% d'immigrants étrangers, alors que ceux-ci sont moins de 10%. Il y a un problème de correction des perceptions qui ne dépend pas de la finesse administrative, mais qui est un écart beaucoup plus profond. Souvent, les attitudes les plus préoccupantes et les plus hostiles à l'égard de l'immigration ne se retrouvent pas dans les régions où la densité d'immigrants est la plus élevée, mais dans celles où la densité d'immigrants est la plus faible. Cela peut dépendre de l'ignorance et donc de la méfiance ou bien il peut y avoir un effet dû au rythme du changement, par exemple en Bosnie, après la fermeture des frontières des Balkans, il y a une concentration de demandeurs d'asile, de personnes fuyant qui ne peuvent plus entrer en Croatie et ce phénomène a été généré en si peu de temps, que même si ces individus ne sont pas si nombreux, le rythme de croissance du phénomène et sa visibilité suscite l'inquiétude, même si les chiffres absolus ne sont pas significatifs.
Il est juste d'essayer de faire tout ce qui est possible pour avoir des chiffres officiels précis qui respectent la réalité, mais malheureusement ce n'est pas suffisant. Nous vivons à une époque définie comme post-factuelle, post-vérité, où nous sommes confrontés quotidiennement à de fausses nouvelles, qui pénètrent plus vite que les vraies nouvelles parce qu'elles confirment une croyance, renforcent une identité et sont donc plus gratifiantes que les nouvelles qui forcent l'individu à se prendre en main, à remettre en question les hypothèses, principes qu'il juge évidents et fondamentaux. La vérité factuelle ne suffit pas à contrer les tendances qui n'ont pas non plus de racines strictement rationnelles.
5) Comment résoudre ce sentiment d'anxiété présent en Italie aujourd'hui ?
C'est une question sur laquelle la moitié de la classe politique européenne, et la moitié du monde de la recherche, cogite. C'est une question extrêmement complexe à laquelle il n'y a pas de réponse facile.
Nous devons certainement essayer de corriger les erreurs factuelles, les erreurs de perception qualitative ou quantitative, qui sont souvent exploitées par des personnes qui ont du pouvoir ou de l'influence et qui ont la possibilité de propager ces erreurs. Il y a des intellectuels et des politiciens qui continuent, par exemple, à dire à tort que tous les terroristes islamiques sont des immigrants, parce que cela leur convient. Il est difficile de lutter contre les fausses nouvelles et les mensonges qui sont souvent utilisés dans ce domaine, parce qu'en même temps il y a ceux qui continuent à les diffuser. Il peut s'agir d'une première stratégie, celle de démanteler les fausses vérités ou les mythes.
Il peut aussi y avoir une stratégie morale, pour tenter de ressusciter ou de maintenir l'empathie, par exemple en faisant connaître, même avec des instruments non scientifiques, mais artistiques ou journalistiques, la réalité de la souffrance des migrants.
Il existe des stratégies politiques, les plus efficaces, qui consistent à donner la parole à ceux qui ne l'ont généralement pas et qui deviennent des symboles. On parle d'immigrants en utilisant deux images : d'un côté la pauvre victime et de l'autre la terrible menace, comme s'il n'y avait rien entre les deux. Ces deux images existent mais la grande majorité des migrants se situe entre ces deux extrêmes et contribuent à la vie du pays dans lequel ils se trouvent, à la fois comme travail, comme impôts et comme énergie, créativité, etc. Donner vie à des personnes qui incarnent autre chose que cette représentation violente et simplificatrice est un moyen de désamorcer la rhétorique des migrants. Si vous pouviez également voir à la télévision la grande masse réelle de migrants qui étudient, travaillent, etc. ou des images des quelques immigrants qui sont des talents spéciaux et qui conduisent donc vers le pays où ils trouvent quelque chose de plus qu'il n'y en aurait autrement, vous pourriez transmettre un message impossible ou très difficile à nier, comme vous ne pouvez pas le faire dans le cas des statistiques.
Les migrants provoquent souvent la haine parce qu'ils questionnent une rhétorique xénophobe à sa racine. Lorsque nous sommes confrontés à un exemple de migrant autre que la simplification à laquelle nous sommes habitués, nous pouvons transmettre un message différent de celui habituellement transmis.
Cela peut être un facteur très important mais difficile à réaliser. En France, cela se produit déjà plus souvent qu'en Italie, où il existe aussi des stratégies délibérées pour donner de la visibilité, par exemple par l'accès à des postes gouvernementaux (par exemple, des ministres issus de minorités d'origine immigrée afin de tenter de contrer une perception erronée, qui considère tous les migrants comme des victimes ou des menaces).
6) Dans le domaine de l'immigration, on parle de plus en plus de la nécessité de coopérer à cet égard au niveau international. Que pensez-vous du fait que le Président du Conseil Giuseppe Conte a décidé de ne pas participer au Pacte mondial sur l'immigration de Marrakech, les 10 et 11 décembre 2018 ?
Monsieur Conte a pris la décision à courte vue de ne pas adhérer au Pacte mondial pour l'immigration à Marrakech. Le choix a été dicté par la volonté de faire entendre une voix forte contre tous ceux qui tentent de gérer l'immigration de manière raisonnable, mystifiant même la réalité du Pacte Mondial, qui en tant que tel n'est pas contraignant, mais n'est qu'une sorte de « charte des intentions » visant à ouvrir la voie à une coopération entre gouvernements d'origine et gouvernements des pays de destination.
C'est une stratégie dans laquelle nous construisons un « ennemi fictif », en disant que le Pacte mondial est une stratégie des mondialistes pour envahir l'Europe, comme cela s'est produit dans plusieurs pays européens, dont la France et la Belgique, alors qu'en fait le Pacte mondial n'est pas du tout une stratégie de menace contre l'Europe, mais une simple « charte des intentions ».
Se plier à cette mystification et ne pas y aller, c'est faire preuve de myopie et surtout de myopie pour un pays comme l'Italie, qui n'est pas protégé par la Manche ou l'Atlantique, mais qui est immergé au milieu de la Méditerranée et peut qui essaye de devenir une « forteresse », mais cela est très difficile. L'Italie a tout intérêt à chercher des solutions négociées avec les pays d'Afrique du Nord et d'Afrique subsaharienne et non des solutions de force, car elle risque d'être très exposée à toute forme d'instabilité qui pourrait se produire sur la rive sud de la Méditerranée. C'est précisément l'Italie qui devrait avoir un intérêt particulier à travailler de manière raisonnable, sans illusion, pour des approches plus collaboratives, plus coopératives, et je crois donc que pour l'Italie, c'était particulièrement myope de refuser de s'asseoir à cette table. Ce qui, soit dit en passant, n'impliquait aucune obligation, mais peut-être quelques petites opportunités. Nous sommes pratiquement les seuls habitants du sud de l'Europe à ne pas y avoir participé. Les autres sont des pays d'Europe de l'Est ou les Etats-Unis et l'Australie, qui sont loin des éventuelles flambées de tension et qui peuvent plus facilement rendre les « isolationnistes », car ils sont en fait assez éloignés ou isolés des sources possibles de préoccupation. L'Italie, en revanche, est très proche et il n'est donc pas raisonnable de refuser d'engager le dialogue. Il est évident que le dialogue ne signifie pas l'obligation de s'incliner devant les décisions des autres, mais qu'il signifie maintenir un canal de communication ouvert.